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giovedì 25 ottobre 2007

Un Daverio del 99


E' già possibile oggi tentare di applicare il senno di poi alla rivoluzione telematica che tra il 1975 e il 1985 cambiò alle radici la struttura delle civiltà occidentali. Va detto 'tentare' non solo per la modestia necessaria nell'affrontare un tema così capitale e complesso, ma soprattutto perché ogni tentativo di teorizzazione sistematica in questo proposito verrà comunque travolto dalle innovazioni successive. Basti pensare al sogno (o incubo?) degli anni settanta che prevedeva un numero ridotto di super banche dati, ovviamente controllabili da una ipotetica super potenza, alle quali un'umanità ridotta in schiavitù telematica sarebbe stata allacciata con piccoli terminali, sue catene simboliche e definitive.
Questo timore futurologico fu vanificato in pochissimi anni dalla diffusione dei personal computer e dalla loro messa in rete mondiale. (*)

Un nuovo panico, attuale, proviene dalla sensazione inquietante di un padronato unico del software, il quale verrà probabilmente, a sua volta, ridimensionato dalle prossime innovazioni. L'opinione pubblica sta scoprendo, come fece all'inizio dell'Ottocento, che la macchina a vapore e la velocità su rotaia, doppia di quella del cavallo, non ammalano e non fanno uscire di testa le genti.

Applicare il senno di poi consente quindi di superare le paure e di evitare di scivolare negli entusiasmi ingenui che all'inizio degli anni Ottanta portarono ad una serie di conclusioni affrettate e di scelte isteriche. Scattò allora l'illusione di un mondo esclusivamente virtuale, di un decentramento totale del lavoro, di una atomizzazione della società reale ricomposta dal tessuto telematico. Si cominciava a parlare di morte delle città, si ipotizzavano bucolici ritiri nelle campagne, si immaginavano regole nuove di un cosmo internazionale attivato dal telelavoro. Nel campo più strettamente culturale furono annunciate con entusiasmo alcune autentiche aberrazioni: la fine delle visite ai musei poiché sarebbero questi diventati presto banche d'immagini consultabili da casa, la fine delle università tradizionali poiché sarebbero queste diventate centrali di emissione e diffusione per una formazione domestica. Le città si sarebbero evolute in meri empori per le merci, enormi supermercati collegati da nastri d'asfalto. La teoria ebbe per fortuna come unica conseguenza non calarono, i campus universitari rimasero luoghi di allenamento intellettuale, civico, sportivo e sessuale per i giovani, i cinema riconquistavano quote di pubblico; si formavano file di esseri umani davanti ai teatri o ai musei, purché gli spettacoli o le mostre fossero stati attraenti.

La prima interpretazione della questione virtuale si era fondata su una sequela di equivoci:
- il virtuale sarebbe stato la più importante conseguenza della tecnologia informatica e dei linguaggi digitali;
- il virtuale avrebbe consentito la riproduzione all'infinito dell'informazione, dell'elaborazione intelligente, dell'opera d'arte, come primo passo verso la creazione di mondi totalmente inventati se non addirittura autogenerati;
- il virtuale sarebbe potuto diventare pericoloso perché avrebbe consentito al Grande Fratello che lo poteva controllare un potere mediatico infinito, suscettibile di influenzare il pensiero, i consumi e l'organizzazione del corpo sociale;
- il virtuale in conclusione sarebbe stato l'innovazione assoluta, caratterizzante l'epoca postmoderna, postindustriale, postpolitica.


La questione non si allontanava molto dalle tesi di Adorno che vedevano con preocçupazione sorgere il potere mediatico della radio, unica voce, ed esclusiva, del potere durante il terzo Reich, mentre la stampa, privata e competitiva, richiedeva almeno la repressione della censura. In questo senso sembrava che il virtuale potesse essere l'illusorio fattosi reale non tangibile e ci si dimenticava che da sempre il virtuale era stato il tangibile (o l'apparente tangibile) non reale o surreale.

Il virtuale è da sempre esistito, in quanto tangibile mistificato, nel fulmine punitivo dell'ira di Giove, nella crociata dei bambini partiti alla conquista della Terra Santa e annegati allargo di Tolone, come racconta Marcel Schwob, o nella supremazia marina e aerea dell'Impero italiano d'Abissinia, affogata nella verifica di Tobruk.
E in questo senso la fiaba più accattivante, apparsa recentemente sugli schermi cinematografici, è quel Truman Show dove in una vita parallela e sperimentale tutto è fittizio ma assolutamente concreto e quindi plausibile solo per una creatura inventata in laboratorio che vi partecipa inconsapevolmente.

il virtuale non è figlio dell'informatica; sorge ciclicamente nella storia dell'uomo ogni volta che viene a mancare un contraddittorio critico, e dura fino alla crudele verifica. Non discende dai linguaggi in voga, ma li adopera in base alla loro efficacia, si tratti della Santa Inquisizione, del tribunale moscovita o maccarthyano, dell'oligopolio informativo. E può raggiungere bizzarre vette di follia collettiva come nel caso di quella mania che scoppiò nell'Olanda di metà Seicento quando fu attribuita la funzione di bene rifugio primario ai bulbi di tulipano, dando ad essi valutazioni da alta gioielleria e generando poi, ad ebbrezza svanita, una serie di tracolli finanziari sfociati in suicidi di gruppo.

museo concreto
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Caratteristica principale della recente straordinaria innovazione è ben altra:
la realizzazione di un sogno da neo agorà globale, il real time che annulla il tempo nello spazio e abolisce i termini di distanza nella comunicazione.
L'invenzione del cyberspazio è, per la cultura futura, di peso pari alla trasformazione del mondo dei libri dovuta alla stampa di Gutemberg coniugata con la diffusione dei volumi in sedicesimo di Aldo Manunzio.
Le sue conseguenze complete sono per ora incalcolabili. I suoi effetti sulle biblioteche, sui musei e nell'organizzazione degli eventi (mostre e feste) si fanno già fortemente sentire.

Il museo, come luogo di raccolta e di testimonianza, non rientra mai in una tipologia unica, come spesso le trattazioni teoriche o giuridiche tendono ambiguamente a credere. E' museo il Cimitero di Staglieno come il Guggenheim di Bilbao, l' Ecomuseo d'Alsazia sulle vecchie miniere di potassio come Palazzo Pitti, il museo virtuale Metropolis di Amsterdam e le collezioni archeologiche settecentesche di Napoli, il museo d'arte moderna Strengl di Hanover (che continua ad ampliarsi e ad acquisire) e il Bagatti Valsecchi o il Poldi Pezzoli di Milano (destinati per vocazione a rimanere necessariamente nello stesso spazio storico e a non arricchire ulteriormente le proprie collezioni).

Queste istituzioni tutte hanno però in comune due temi: il primo è lo scopo, il secondo la metodologia.

Lo scopo è ciò che la letteratura tecnica oggi chiama mission e che consiste nel destino originario tracciato dai fondatori, nella funzione che si reputa di dovere svolgere e quindi nell'avvenire che ci si prefigge.
Lo scopo ovviamente evolve coi tempi, da contemporaneo diviene spesso storico (ad esempio, i musei di scienza e tecnica diventano ineluttabilmente oggi di archeologia industriale), assume nuovi significati (ad esempio, le collezioni archeologiche di Napoli sono oggi documento primario del Neoclassicismo), può morire e prendere orma e significato completamente diversi.
A quest'ultima categoria appartiene, per quanto sembri paradossale, il museo del Louvre, nato in chiave politica dalla volontà giacobina di Robespierre nel 1793, evolutosi conseguentemente in teca di consultazione umanistica durante tutto l'Ottocento, e sostanzialmente morto rispetto a queste sue funzioni originarie con la trasformazione, esattamente duecento anni dopo, nel 1993, in 'iperturistodromo' del visivo, con grande giovamento per gli albergatori parigini.
Chi si ricorda il Louvre del film Belfagor, quello dell'incontro magico in una sala polverosa e silente con il Seneca morente, la cui pietra di paragone nera e drammatica entrava in colloquio intimo con quattro solenni omenoni romani a cariatide, rimarrà oggi travolto e definitivamente distratto dal cicaleccio giapponese e dal rumore incessante di una scala mobile.
In questa antica istituzione, la funzione formativa individuale che aveva convertito successive generazioni al fascino della classicità portandole ad iscriversi all'Ecole Normale Supérieure è stata sostituita per sempre da una nuova funzione, forse più utile, quella di riempire i vuoti sempre maggiori che il tempo libero globale sta generando.

Altri musei non hanno ancora seguito la stessa strada: il Met di New York, pur crescendo ed arricchendosi, conserva intatta la sua mission originaria. Infine va ricordato che ogni funzione è conseguente ai parametri strutturali elaborati di ogni singola popolazione.

Preziosissimo è il recente contributo critico di Robert Hughes, il quale in un lungo articolo sulla New York Revue oi Books tenta di tracciare un distinguo fra la funzione formativa e moralmente educativa della prassi americana, figlia della teosofia naturalistica di Emerson, e quella più ludica e 'amorale' di quella italiana (cita a proposito il Malatesta, protettore di Piero della Francesca e del Bramante, di cui la genialità estetica è convissuta con la di lui totale bestialità umana, colpevole egli della sodomizzazione pubblica e della successiva esecuzione capitale del nipote del papa mandatogli in ambasciata). Dimentica forse Hughes di citare la prassi francese, più incline ai fascini del commercio, e quella tedesca, sempre succube dell'accademia.

Ma nella sostanza spiega con arguzia quanto ogni fenomeno museale sia legato alla semiotica nazionale. In quest'ottica, pensare al museo virtuale o cyberspaziale, con velleità esaustive o enciclopediche, appare come un progetto integralmente fuori dall'esistente.

La metodologia del lavoro museale si articola in tre aree distinte e definite: la conservazione, la ricerca, la comunicazione.

La conservazione si fonda sul colloquio intelligente con i materiali che costituiscono il patrimonio; essa verte su temi specificamente oggettuali, concreti e fisicamente tangibili, suscettibili di lasciare ad ogni oggetto l'opportunità di assumere aura propria, storica o da raccolta. Su questa prima area la rivoluzione elettronica sembra potere influire poco.

Nelle due altre aree l'elaborazione digitale, la telematica e i conseguenti sistemi multimediali stanno per generare cambiamenti radicali. La ricerca sui materiali costituenti il patrimonio è stata e sempre più sarà accelerata dalle catalogazioni elettroniche. La documentazione fotografica digitale è già oggi uno strumento di flessibilità inattesa, suscettibile di essere immediatamente messa in rete. La possibilità di lavorare su materiali presso istituzioni fisicamente lontanissime consente incroci interpretativi rapidi. La contestualizzazione e la contaminazione dei percorsi si sta accelerando. La rotazione fra allestimenti e depositi rende il museo vivo e suscettibile di essere visitato da utenti regolari che vi troveranno, accanto ai riferimenti stabili, racconti esposit!vi costantemente e criticamente nuovi. La comunicazione del museo, spesso suo scopo prioritario, trova strade nuove sia nella didattica sia nel contatto di fidelity con i visitatori che possono compulsare, anche da casa propria, degli archivi intelligenti ed essere tenuti al corrente dell'attività in corso. Guai però a credere che il futuro del museo possa passare sullo schermo del video solamente.

La prima viene fortemente coadiuvata dall'accelerazione della comunicazione anche se continua a richiedere, per un approfondimento effettivo, il contatto con le cose. Il secondo esiste solamente in presenza dell'oggetto tangibile; e probabilmente solo questo genera percorsi creativi successivi. Giova, a proposito, considerare il percorso parallelo della musica, che ha avuto già da tempo la fortuna del real time (radio e televisione) e quella della riproduzione (dischi) a tal punto che è stata in grado di inventare generi musicali destinati sin dall'inizio alla sola riproduzione (elettroacustica, musica high tech ecc.). Anche in questo caso però, lo studio concreto, la partecipazione alla performance esecutiva, il contatto con la sua 'fisicità' finiscono con l'essere le condizioni migliori di godimento e quelle fondamentali per un'ulteriore creatività. L'evento permane.

L'evento: salvezza delle masse e salvaguardia del museo

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Ed è di questo, dell'evento, che vorrei parlare in conclusione. Sempre di più sta assumendo un ruolo capitale l'evento, nella sua articolata e irripetibile unicità, che sia esso 'quella specifica serata a teatro', 'quella mostra precisa in quel luogo determinato', 'quello straordinario concerto', 'quella festa particolare con quell'allestimento e quella partecipazione'.

E' antico quanto la cultura occidentale, fu di Euripide come delle Baccanali, visse nelle feste dei santi patroni e delle fiere medioevali, sulle piazze come davanti alle chiese e nei palazzi, fu sancito come materia da professionisti da quello stesso Vasari che scrisse durante il Rinascimento la vita degli artisti ma che era allora ben più noto come organizzatore delle feste dei Medici, che egli disegnava e dirigeva, dall'imbandire il desco allo scegliere i cibi, dalla musica alle macchine teatrali. Fu padre l'evento di quella trasformazione dello spettacolo che congiunse musica, teatro, scena e pubblico e che per questo motivo assunse il nome di opera.
Fu generatore delle mostre moderne, dai salons parigini inaugurati da Napoleone III alle esposizioni archeologiche berlinesi sotto l'occhio vigile di Guglielmo II. L'evento, per sua natura sostanziale (poiché 'avviene'), è l'opposto diametrale di ciò che oggi viene chiamato 'il virtuale'.

E per questa sua natura diventa sempre di più il momento di contatto e d'incontro di una comunità locale o globale che vuole la verifica del suo proprio esistere.

L'evento contemporaneo (mostra, spettacolo, festa o banale carnevale) utilizza tutti gli strumenti, e i più attuali, per manifestarsi. Usa la telematica per la trasmissione dell'informazione necessaria a formare il coagulo di oggetti sparsi che s'incontrano nel suo divenire (siano essi quadri d'epoca o saltimbanchi); sfrutta senza pudore la multimedialità nel dispiegarsi; tiene accesi i telefoni cellulari per governarsi; sposa il real time per comunicare con i suoi utenti e, cinicamente, ogni tipo di media per farsi conoscere.

Ha già generato una nuova e complessa professione, quella dell'organizzatore culturale, attorno al quale si moltiplicano occasioni e posti di lavoro, con obblighi organizzativi stringati e determinazione militare delle strategie.

L'evento non viene solo organizzato, viene in qualche modo fabbricato, poiché avviene una tantum e non è quindi ripetibile (in questo senso anche uno spettacolo con varie repliche può essere evento purchè sia accertato che una volta terminata l'ultima recita esso non sarà più replicabile).

Esso si riferisce sempre ad un archetipo, che è la 'festa' momento catartico dove viene immaginato un mondo diverso da quello abituale, un mondo in qualche modo sperimentale e migliore, un modo di rendere concreto ciò che potrebbe essere e che non è. Ed in questo senso la produzione sta tutta, nella preparazione e nella capacità di governo istantaneo, non sono quindi ammessi cambiamenti di rotta in itinere, una volta scoccata l'ora X. Passata la festa, gabbato lo santo. La contestazione di fornitori, a verifica fatta della merce, rimane del tutto inutile. Il che rende difficoltoso ogni sistema di gara d'appalto e quasi obbligatoria una scelta aprioristica fondata esclusivamente su dati di stima, in senso qualitativo ed economico.

E' quindi pacifico che la quantità e la selezione delle informazioni atte al suo delinearsi devono essere ricche, confrontabili e rapidissime.

Ogni tipo di rete informativa sarà chiamata in causa, dalle amicizie alle collaborazioni sedimentate internazionali fino al web vero e proprio che consente il trasporto in real time di campioni filmati e sonori (con la prossima generazione di computer si riuscirà forse a trasferire materiale di qualità tale da essere messo in opera).

Ma lo stesso 'spettacolo' (e ripeto: si tratti di mostra, teatro o festa pubblica) è reso possibile grazie alla simultaneità dei comandi (si ricordi Donnerstag im Licht realizzato negli anni Ottanta da Stockhausen per la Scala nel Palazzetto dello Sport di Milano, dove l'autore dirigeva, da un'unica console elettronica centrale, i musicisti collocati ai punti cardinali dell'edificio, console analoga a quella usata da Valerio Festi per i lanci radiocomandati -deifuochi d'artificio su colonna sonora dei walzer di Strauss durante le feste milanesi).

Ed è ovvio che la mediazione complicatissima fra questi elementi verrà affidata all'intuito di chi sta a capo, ciò che promuove una funzione radicalmente umana e creativa nel cuore di un sistema tecnologico. Così come, per chi dirige (non diversamente che un'orchestra), la capacità di leadership sarà insostituibile nel trascinare un'intera macchina combinata di uomini e mezzi tecnici. Infine, chiave centrale per il successo, sarà la capacità di provocare la sorpresa (il tema, il luogo, il tempo, lo spazio inattesi) pur muovendo sentimenti o aspettative profondamente ancorate nell'inconscio di un pubblico vasto e necessariamente trasversale.

L'indagine primaria sarà una ricerca semantica sui messaggi da mandare.
Per esperienza personale, devo riconoscere che il tavolo di pre-elaborazione più prezioso fu sempre un tavolo di tecnici culturali a confronto con alcuni antropologi culturali provenienti dal mondo universitario (in quel tavolo, ad esempio, fu determinato che il carnevale milanese era, per tradizione, 'choc' mentre quello veneziano era 'chic').
E nello stesso modo provate ad ipotizzare cosa potrà essere, per il capodanno del 2000, momento di verifica di attese millenaristiche, la realizzazione di un avvenimento, globale in senso letterale, dove la rotazione terrestre segnerà una festa a scatti successivi di 24 ore tutta teletrasmessa, tele-elaborata e forse tele-guidata, per cui ciò che avverrà concretamente nel luogo e nel tempo dove si colloca il singolo individuo non potrà esistere che in sintonia con il coro mondiale.

Ecco che torna il virtuale in senso storico a sostegno del virtuale in senso moderno. Riesce così l'evento, con spostamenti di fiumane, a creare miti contemporanei (Mahabarata di Peter Brook alla Bam di New York o la mostra di Vermeer in Olanda) quanto autentiche mistificazioni (il ritratto, a Brera, della Gallerani-Dama con l'Ermellino, attribuito temerariamente a Leonardo, unico arricchimento di un catalogo pittorico per il resto universalmente purgato).

Sta diventando il laboratorio progettuale, nel museo e oltre il museo,
di una cultura diffusa e fruibile da infinite quantità di pubblico
.
E in questo senso, per il museo classico, giusto sacrario delle nostre memorie e scrigno nel quale si sono accumulati i risparmi culturali dei secoli, è garanzia atta ad evitare un consumo che porterebbe inevitabilmente alla consunzione. Preoccupata è la musa che decorava il museion del giardino di Cicerone.

S'immagina la musa un mondo futuro (nel 2005 vi saranno già seicento milioni di turisti all'anno) dove orde umane scenderanno a scorrere nelle fragili istituzioni che un passato elitario ci ha trasmesso.

Si rassicura solo la musa sapendo che ci saranno istituzioni nuove e resistenti dove, una volta ogni lustro, il Cristo di Giotto, abbandonata temporaneamente l'ombra calma fortunatamente riconquistata negli Uffizi, verrà, protetto da una gabbia climatizzata di plexiglas, esibito alle folle. Il resto sarà telematico.

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